Prendersi cura dell’esistente per quando si cesserà di esistere

Prendersi cura dell’esistente per quando si cesserà di esistere è compiere un atto di amore e di grande responsabilità, verso se stessi e verso gli altri. L’Ordinamento italiano fornisce lo strumento di derivazione romanistica del testamento quale supremo atto di ultima volontà. Il divieto per i contigui patti successori, tuttavia, è andato progressivamente erodendosi, a favore di una nuova libertà nella pianificazione patrimoniale. Gli operatori del diritto, avvocati, notai e commercialisti, devono essere affiancati da psicologi forensi, necessari perché il de cuius possa serenamente fare il bilancio di una vita.

di Roberto Campagnolo

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Prendersi cura dell’esistente per quando si cesserà di esistere è in sé profondamente contraddittorio, e tuttavia rappresenta una delle più alte espressioni della libertà dell’individuo.
Prendersi cura dell’esistente per quando si cesserà di esistere è anzitutto un dovere verso sé stessi. In tutti i Paesi civili si va verso una regolamentazione del fine vita, il che apre ad un serrato, e spesso sofferto, confronto circa l’utilità del cosiddetto testamento biologico, con eventuali aperture all’eutanasia ed al suicidio medicalmente assistito.

Dopo alcuni eclatanti casi, balzati all’onore della cronaca, quali il caso Welby ed il caso Englaro, e dopo decisioni prese ad hoc, il dibattito è giunto sino alla Consulta, con l’esame della liceità o meno dell’aiuto al suicidio (caso Cappato/ DJ Fabo). La Suprema Corte, prendendo provvedimento su una questione concreta, ha immediatamente investito il Legislatore del compito di approntare un testo legislativo il quale segni un punto fermio fra diritto pubblico all’esistenza – ma quale qualità di esistenza ? – e diritto privato all’autodeterminazione nel fine – vita.

Proprio con riferimento al testamento biologico si è messo in rilievo come un atto di ultima volontà sia destinato a disciplinare e regolamentare – per quando il testatore non sarà più in grado di esprimere la propria volontà, libera e cosciente, – questioni etiche che travalicano l’ambito giuridico economico.
Tuttavia, anche con riferimento a quest’ultima, tradizionale e fondamentale funzione del testamento quale atto di ultima volontà, prendersi cura della propria famiglia e dei propri affetti attraverso il bilancio di una vita costituisce qualcosa di più di una semplice pianificazione patrimoniale. Per questo motivo, il supporto della psicologia forense è fondamentale. Gli operatori psico – sociali debbono affiancare i tecnici del diritto nel consigliare il pater familias nella redazione di un atto di ultima volontà.

Nel nostro Ordinamento sussiste un vero e proprio favor per il testamento, quale negozio personalissimo unilaterale.
Esso deve essere letto facendo ricorso alla interpretazione cosiddetta soggettiva: si deve cioè, ricercare la volontà del testatore, il che può condurre a problematiche come quelle sull’autenticità dello stesso, ovvero sulla capacità del testatore a disporre.

Oggigiorno, specie in presenza di situazioni famigliari complicate, ingenti fortune, aziende, si riscontra fra gli operatori del diritto come il testamento risulti inadeguato a gestire futuri assetti patrimoniali complessi. Si auspica, pertanto, e stante la progressiva erosione del divieto dei patti successori, l’introduzione di nuovi strumenti a disposizione per la successione mortis causa, come è già avvenuto per l’introduzione del patto di famiglia.
Per la risoluzione delle controversie che potrebbero insorgere in dipendenza dalla successione, oltre all’impugnazione del testamento, la dottrina discute del compromesso in arbitri, quale clausola arbitrale testamentaria, ovvero quale clausola compromissoria. La difficoltà all’introduzione ed all’impiego generalizzato di tali istituti risiede nel fatto che dovrebbe sussistere un collegamento negoziale, teleologicamente finalizzato, tra atto di ultima volontà (unilaterale) e compromesso (contratto).

Per aggirare tale eventualità è stato da autorevole dottrina ricondotto l’istituto della clausola arbitrale testamentaria nell’alveo processuale.
In conclusione, il testamento è negozio personalissimo; tuttavia si auspica da più parti una maggiore flessibilità dell’istituto.
Il tutto nella consapevolezza che prendersi cura dell’esistente per il tempo in cui si cesserà di esistere è supremo atto di autonomia, indipendenza, amore.

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Prendersi cura dell’esistente per quando si cesserà di esistere ha in sé una profonda contraddittorietà, e purtuttavia indagare i motivi che muovono il testatore a disporre, specie per quanto concerne il rapporto coi figli, ha un’importanza cruciale anche per dirimere le controversie giuridico – economiche le quali potrebbero insorgere in dipendenza da un atto di ultima volontà.
La psicologia giuridica indaga le cause psicologiche che animano il testatore. Le decisioni testamentarie, infatti, sono attratte nell’ambito del diritto; tuttavia la psicologia giuridica rileva in quanto ogni atto di ultima volontà è frutto di scelte personali.
Il testatore si trova infatti, inevitabilmente, a fare delle scelte: come posso fare per lasciare un concreto segno di affetto? Come posso fare per non scontentare nessuno dei miei figli? Come posso gestire questioni economiche fra figli i quali, in quanto fratelli, dovrebbero essere tutti uguali difronte al proprio padre? Quali decisioni dispositive posso prendere subito, in vita, e cosa invece verrà regolato dopo la mia morte? Sono e sarò sempre libero nelle mie scelte, o sono o sarò soggetto a qualche forma di pressione?
A monte delle scelte economiche, politiche e finanziarie del testatore, nel coordinare la decisione finale vi è una persona nella sua individualità, che non deve essere lasciata sola davanti ad un notaio.
Il problema della pianificazione successoria può essere letto sotto molteplici profili ed angolazioni. Esso esprime comunque la volontà di contare anche dopo la morte.
Esso può riguardare, in primis, la decisione su come si vuole morire (cd. “testamento biologico”); in secondo ordine – last but not least – il passaggio generazionale.

Il testamento biologico esprime la volontà di un fine vita – e, di conseguenza, di una buona morte – senza sofferenza. Non si tratta, infatti, solamente di scegliere una cerimonia religiosa o laica, ovvero la cremazione, se non addirittura l’ibernazione. Il testamento biologico cerca di prevedere quello che potrà succedere alla fine della vita di un individuo, anche se, è bene riconoscerlo, è estremamente difficile prevedere quello che potrà accadere alla fine della propria vita, e, ad ogni buon conto, sussiste il vincolo legislativo nella contemporaneità.
Morire deve essere qualcosa che riguarda tutti e ciascuno, e non un solo soggetto di diritto. Si deve ricercare un senso compiuto di umanizzazione della morte e del morire.
In Italia esistono le disposizioni anticipate di trattamento, comunemente definite “testamento biologico” o “biotestamento”, regolamentate dall’art. 4 della l. 219 del 22 dicembre 2017, entrata in vigore il 31 gennaio 2018.
La legge prevede la possibilità di ogni individuo, sulla base del consenso informato, di esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari in previsione di un’eventuale, futura incapacità di autodeterminarsi. La scelta può essere poi più o meno vincolante per il medico a seconda del grado di imprevedibilità o meno delle circostanze concrete. Da quando è entrata in vigore la legge 219/17 sulle DAT (Disposizioni Anticipate di Trattamento), non è tuttavia mai stata realizzata una campagna istituzionale volta a informare cittadini, medici e personale sanitario di questo importante nuovo diritto.
Ad ogni modo, dopo alcuni eclatanti casi, portati alla ribalta della cronaca, e dopo una sofferta decisione della Consulta sul caso Cappato/ Dj Fabo, del 2019, anche l’accesso al suicidio assistito, quale estrema manifestazione di volontà libera e consapevole di un soggetto malato di una patologia irreversibile che gli procuri atroci sofferenze, ha avuto via libera nel nostro Paese, anche se occorrerà, inevitabilmente, che la legislazione italiana colmi un vuoto normativo e procedurale già ampiamente evidenziato dalla Corte Costituzionale.

Poter decidere in anticipo, in previsione di una futura incapacità di autodeterminazione, a quali trattamenti sanitari sottoporsi è comunque, da oltre tre anni, un diritto acquisito da tutti i cittadini italiani.

IL dibattito sul fine vita ha impegnato giuristi e medici e spesso scosso, con casi eclatanti, l’opinione pubblica.
Oggi come oggi vi è l’attesa per un intervento legislativo che, come auspica la Consulta, colmi il vuoto normativo in una materia così delicata e urgente.
Sebbene tante sia stata l’attesa, è ormai prossima al varo una legge che stabilisca alcuni punti fermi fra interesse pubblico alla difesa della vita e diritto soggettivo privato all’autodeterminazione.
La riflessione giuridica, ancor prima di esaminare questioni di carattere filosofico, etico, religioso ed antropologico, s’incentra sul valore dell’esistenza umana, e sulla possibilità di autodeterminazione per il fine vita.
Per quanto riguarda il testamento vero e proprio, esso è un atto personalissimo, ben risaliente nella tradizione romanistica, con il quale il de cuius pianifica la propria successione.
Atto unilaterale, questo istituto giuridico trae la forza del vincolo dalla sua revocabilità e gratuità, espressione di una volontà libera usque ad ultimo exitu
Tuttavia, il testatore libero completamente nella propria autodeterminazione non sarà mai: avrà sempre una moglie, un figlio, un socio cui affidare in tutto o in parte il proprio patrimonio per il tempo in cui egli avrà cessato di vivere.
Per questo è così importante la consapevolezza.
Non deve passare il messaggio che “tanto io non ci sarò più…”.
In caso contrario, può accadere che un bene appartenente in vita in modo esclusivo ad una persona venga usurpato, ovvero il testamento generi effetti peggiorativi sull’assetto patrimoniale complessivo di una famiglia o di un’azienda (da un bene si genera un male).
La ponderazione giuridica, poi, è di fondamentale importanza nel passaggio generazionale di grandi patrimoni, quando non di veri e propri di imperi industriali.

In un’epoca in cui gli individui vivono più a lungo si è di conseguenza protratta anche l’età in cui il dono dell’eredità viene conferito.
L’eredità dovrebbe essere in effetti un dono – pater munus -, un estremo ed eminente, non condizionato, atto di liberalità, come tale svincolato dal concetto stesso di morte.
Tuttavia, in una società in cui l’aspettativa di vita è ormai elevata, spesso i figli ereditano quando sono già anziani, ovvero l’eredità “salta” per così dire una generazione, ed i sui benefici effetti saranno raccolti dalle generazioni più giovani.
Per questo sono importanti i modi che anticipano l’eredità in vita, come l’istituto – anglosassone ma ormai stabilmente recepito nel nostro Ordinamento – del trust, ovvero la nuda proprietà con riserva di usufrutto od, infine il patto di famiglia o d’impresa.
La ricchezza di ieri condiziona lo sviluppo sociale di domani. Per questo motivo l’eredità viene tassata, dal momento che il mercato premia il talento, ed essa non può essere disgiunta dal contesto politico – economico nel quale i padri hanno operato.
Una volta accettata l’eredità, i rapporti fra generazioni s’invertono, ed anche i figli che in passato erano stati in profondo dissidio col padre ora ne pretendono gli averi.

E’ stato ampiamente notato, dalla psicologia giuridica, come sovente i padri, nel pianificare la propria successione, privilegino il figlio più debole, quello che ha tratto meno giovamento dalla ricchezza familiare e dalla posizione sociale della famiglia, nonché dall’istruzione ricevuta. Il padre, nei confronti del “figliol prodigo” che ha sbagliato fa un atto di misericordia, poiché sbagliare non è solo un diritto, bensì è anche una precondizione per l’età adulta.
Purtroppo, ciò può generare disparità nei confronti del figlio che ha seguito le orme paterne, e può aprire una fase delicatissima in cui i dissidi fra fratelli possono sfociare in una vera e propria “guerra” per l’ eredità.
Non sempre, infatti, la scelta ereditaria che il padre compie nel testamento premia il merito ovvero segue la meritocrazia, potendo in realtà investire dinamiche emotive profondissime.
Per questo, il padre non può essere lasciato solo nel momento in cui verga di proprio pugno, ovvero affida ad un notaio, il proprio testamento; in caso contrario, la scelta sul lascito rischia di essere dettata più da una tempesta emotiva che non filtrata attraverso una serena ponderazione, libera ma consapevole, che solo un operatore del diritto, affiancato da uno psicologo, può garantire. La rete dei servizi giuridici alla persona deve essere potenziata ed integrata anche per garantire una serena successione.

Quando l’eredità del de cuius riguarda l’azienda di famiglia le cose si complicano.
Nel nostro Paese l’associazione italiana delle imprese famigliari rileva come circa l’83% delle piccole e medie imprese sia controllato da una famiglia, e nella classifica delle prime cento società per fatturato 42 sono tramandate da padre in figlio.
La maggior parte delle imprenditorie italiane è quindi formata da figli di imprenditori, fenomeno che fa del passaggio generazionale un problema dalla cui risoluzione dipende la vita di molte aziende.
Individuare e valorizzare le capacità manageriali dei figli degli imprenditori, laddove non vi siano regole codificate, è preminente interesse dell’imprenditoria italiana, come hanno ben rilevato le società di management o di temporary management come Contract Manager (VERGANI).
Stante la longevità del capo famiglia, nell’azienda possono lavorare tre generazioni, e ciò pone delicatissimi problemi di convivenza.
Invidie e gelosie possono diventare una minaccia, poichè in gioco vi sono interessi di natura economica, e ricoprire incarichi di primo piano è questione di prestigio personale e di riconoscimento sociale.
Se in azienda vi sono genitori accentratori ovvero figli incapaci è un problema, che può essere forse mitigato o risolto tramite una oculata, attenta e sensibile gestione manageriale.

Per il genitore l’azienda è il figlio più importante, l’ha vista crescere e le ha dedicato le migliori energie. Il fondatore è l’anima dell’azienda ed è duro passare il testimone al figlio. Inoltre, è bene ricordarlo, si può ereditare l’azienda ma non la leadership, che si deve conquistare sul campo.
Per questo motivo, anche nelle aziende a conduzione familiare soltanto il 30% superano la seconda generazione e solamente il 15% supera la terza.
L’azienda deve confrontarsi col mercato, ed è un problema se insorgono dissidi. Pertanto, servono equilibrio e patti chiari.
Il passaggio generazionale è il momento in cui si devono assumere le proprie responsabilità. Servono una forte convinzione di credere nei valori dell’azienda, e la capacità di adeguarsi ai tempi che cambiano.

La trasmissione familiare della ricchezza è un‘ esigenza sentita nel nostro Ordinamento; essa, tuttavia, si scontra con il divieto dei patti successori.
In Italia vige, ai sensi del nostro Codice Civile, il divieto di tali patti, siano essi confermativi, dispositivi ovvero abdicativi. Per patto successorio si intende ogni atto di disposizione o di rinuncia ai diritti scaturentisi da una successione non ancora aperta. La ratio di tale peculiarità risiede nel fatto che, come da tradizione romanistica, il testamento è l’unico atto di ultima volontà che possa regolare la successione del de cuius, un atto sempre revocabile, unilaterale, personalissimo – in quanto in esso si mischiano, inevitabilmente, considerazioni di carattere economico e personali aspirazioni e sentimenti – che, per questo motivo gode del favor del legislatore. In Italia, dunque, il testamento è l’unico negozio a causa di morte e di ultima volontà con il quale l’autore regola e stabilisce la sorte dei propri rapporti patrimoniali in dipendenza della sua morte. Orbene, sebbene nel nostro Ordinamento giuridico sia vigente il divieto di patti successori, le mutate condizioni economiche e sociali hanno inevitabilmente portato la dottrina a ventilare l’ipotesi di un ripensamento in merito (RESCIGNO, 1995). Sempre la dottrina più recente ha sottolineato come sia avvertita sempre più l’esigenza di formulare una valida alternativa al testamento (LENZI, 1988). Questo accade poiché nella attuale contemporaneità il diritto di civil law, di tradizione romanistica, e quello di common law, di formulazione anglosassone, subiscono inevitabilmente un avvicinamento, stante il mutato contesto in cui il diritto successorio è chiamato ad operare. Il testamento appare oramai inadeguato, quale unico atto mortis causa previsto nel nostro Ordinamento, a far fronte a profonde trasformazioni sociali, nonché al mutamento dell’organizzazione economico – produttiva. Lo stesso concetto di proprietà ha visto una costante evoluzione. Il divieto dei patti successori, in quest’ottica, costituisce il più serio ostacolo all’esplicarsi dell’autonomia privata. Giova rilevare, infine, che esso non poggia su considerazioni sistemiche all’interno del nostro Codice Civile: in buona sostanza, è frutto di una scelta, del tutto arbitraria, del Legislatore, il quale ha inteso privilegiare la revocabilità illimitata delle disposizioni mortis causa. Sorge dunque la necessità di fornire al de cuius strumenti più ampi rispetto al semplice testamento come unico atto mortis causa; il tutto nell’auspicio di un significativo miglioramento della situazione economica e produttiva, nonché dell’ accrescimento del livello culturale e di benessere sociale, tramite una maggiore distribuzione delle ricchezze e l’evoluzione del concetto stesso di proprietà. Un modo per aggirare il divieto dei patti successori istitutivi nel nostro Ordinamento è dato dal riconoscimento della liceità dei patti di famiglia e d’impresa. Nel 2006 è stato introdotto nel nostro Ordinamento l’istituto del “patto di famiglia”. Si tratta della possibilità per un imprenditore di regolare il passaggio generazionale trasferendo ai propri figli l’azienda o le quote di partecipazione al capitale della società di famiglia senza che vi possano essere contestazioni in sede di eredità. Pur riguardando la successione dell’imprenditore, il patto di famiglia è tipicamente un contratto inter vivos, che comporta il trasferimento immediato dell’impresa di famiglia. Il patto di famiglia deve essere stipulato per atto pubblico alla presenza di un notaio, e vi devono partecipare tutti coloro che sarebbero legittimari se in quel momento si aprisse la successione. Stante l’intangibilità della legittima i beneficiari assegnatari dell’azienda (ovvero delle partecipazioni societarie) devono compensare i legittimari pretermessi di una somma equivalente, ovvero dell’equivalente in natura (a meno che questi ultimi non vi rinuncino, in tutto o in parte). Se, all’apertura della successione, risulteranno altri legittimari, quale il nuovo coniuge ovvero altri figli, costoro potranno chiedere ai beneficiari del patto di famiglia il pagamento di una somma pari al valore della quota che spetterebbe a loro per legge. E’ prevista la possibilità di sciogliere il contratto, ovvero di recedere. Un altro modo di aggirare il divieto di patti successori è costituito dal trust testamentario, istituto anglosassone ormai ampiamente riconosciuto nel nostro Ordinamento. Il trust non è disciplinato da alcuna legge italiana, ma è valido ed efficace nel nostro ordinamento in forza della convenzione dell’Aja 1 luglio 1985, con il solo requisito della delibazione italiana circa la liceità e la meritevolezza dell’istituto.

Esistono due tipi di trust testamentario: il trust inter vivos con funzione testamentaria, ed il trust istituito con testamento.

Il trust attua una segregazione del patrimonio, che potrebbe anche essere utilizzata inopinatamente in frode ai creditori. Nel caso di trust testamentario, debbono essere salvaguardati, a pena di invalidità, i diritti incomprimibili dei legittimari, stante il principio, inderogabile nel diritto italiano, della intangibilità della quota di legittima. L’atto istitutivo di tale trust stabilisce un programma unilaterale, che detta le regole a cui il trustee dovrà sottostare nell’amministrazione dei beni, e dispone i mezzi attraverso i quali il disponente trasferisce al trustee i beni e i diritti designati, affinché questi se ne avvalga. I beni possono essere trasferiti al trustee anche mediante testamento. La materiale apprensione di tali beni si avrà con la morte del disponente, che ne rimarrà nel possesso fino al momento dell’apertura della successione. I beni non entreranno in comunione ereditaria, ma saranno trasferiti automaticamente nel trust. Non vi è chi non veda che il trust inter vivos è un contratto successorio fra disponente e trustee, analogo per struttura al mandato. Trattasi, più precisamente, di un contratto bilaterale su atto unilaterale. Il trust disposto invece mediante testamento è un atto mortis causa in cui atto programmatico ed atto dispositivo sono indissolubilmente connessi. Questo secondo istituto presenta maggiore flessibilità, si può revocare ovvero modificare anche in forma olografa, e il suo effetto segregativo si produce al momento dell’apertura della successione, allorquando i beni del de cuius sono trasferiti agli eredi, ma amministrati dal trustee secondo le regole testamentarie. Il trust avrà quindi una funzione gestoria uguale a quella dell’esecutore testamentario. Secondo i principi del diritto interno, il trust deve essere libero da qualsiasi peso o vincolo sulla quota di legittima, pena la nullità della disposizione, e l’esperimento dell’azione di riduzione secondo le regole codicistiche. In conclusione, il trust inter vivos con effetti post mortem ed il trust testamentario rappresentano validi strumenti di pianificazione patrimoniale alternativi al testamento vero e proprio. Il testamento come atto di ultima volontà è sempre espressione di autonomia negoziale, ai sensi dell’art. 1322 c.c., ma esso deve essere mitigato e contemperato da esigenze sociali quali la preminente tutela della famiglia. Inoltre, l’atto mortis causa può esplicare anche effetti di carattere punitivo, quali una limitazione alla libertà soggettiva, l’imposizione di oneri o condizioni sfavorevoli, per esempio legati in sostituzione di legittima, con la produzione di tipici effetti diseredativi. In buona sostanza il legatario si sente privato della propria qualità di erede, il che è molto penalizzante da un punto di vista psicologico. Il tutto può avere anche risvolti affettivi, ad esempio nei rapporti tra gli altri eredi o legatari. Il testamento, infatti, non esplica solamente effetti economici sul patrimonio di defunto ed eredi, bensì si carica di tutte le tensioni ed i bisogni psicologici inespressi, e s’inserisce nelle dinamiche familiari con conseguenze che possono essere anche dirompenti. Sovente il testatore vuole evitare qualsiasi querelle giuridica relativa al proprio patrimonio, e tenta la strada del compromesso in arbitri, onde devolvere ad essi la soluzione delle controversie sorte fra eredi e legatari in dipendenza della successione. Ad esempio, difronte ad un patrimonio cospicuo, a beni immobili o mobili di difficile divisione, di aziende di famiglia o più figli, magari nati da rapporti coniugali differenti, invece di nominare un esecutore testamentario il de cuius privilegia la soluzione arbitrale, vincolata, quest’ultima ad una clausola di riservatezza. In tal modo i conflitti fra eredi potrebbero risolversi speditamente. Il problema è che il nostro Ordinamento, come già ricordato, vieta i patti successori. Oggi come oggi, tuttavia, il divieto di patti successori sta subendo una lenta ma progressiva erosione, il che favorisce l’ingresso della clausola arbitrale nelle procedure di composizione delle controversie, tutte o parte di esse, sorte fra eredi o legatari in dipendenza dal testamento. La validità o meno della clausola arbitrale è problema annoso (COGLIOLO, 1919) e riguarda due concorrenti profili: il lato sostanziale, secondo il quale la disposizione arbitrale può essere intesa come clausola arbitrale strictu sensu ovvero come clausola compromissoria, e quello processuale, secondo il quale la clausola del compromesso in arbitri ha contenuto personalissimo ed atipico a carattere non patrimoniale: quello di prevenire le controversie familiari che potrebbero sorgere in dipendenza di essa. La clausola arbitrale intesa in senso processuale vincola i successori ad attuare un compromesso in arbitri per la soluzione delle controversie ereditarie. La clausola arbitrale intesa in senso sostanziale vincola invece i successori a stipulare una clausola compromissoria all’apertura della successione, diretta ad esplicare efficacia eventuale al momento dell’attuazione della controversia successoria. Mentre la clausola arbitrale intesa in senso processuale non pone soverchi problemi di natura giuridica, il compromesso è generalmente escluso, in quanto nascente da atto giuridico bilaterale conseguente ad atto giuridico unilaterale. Questo genera insormontabili problemi di natura sistemica che concernono la causa del negozio giuridico. Il testamento è, infatti, un negozio unilaterale, la clausola arbitrale è unilaterale, ma il compromesso futuro è bilaterale. Strutturalmente, i due negozi non presentano affinità né soluzione di continuità da un punto di vista causale. In prospettiva di riforma dei patti successori sarebbe dunque consono ed opportuno sancire il pieno ingresso nell’ordinamento alla clausola arbitrale testamentaria intesa in senso processuale.

Per quanto riguarda la clausola arbitrale testamentaria intesa in senso sostanziale essa potrebbe qualificarsi come una clausola atipica testamentaria, che si manifesta mediante un collegamento funzionale, in quanto collegata teleologicamente al futuro negozio giuridico bilaterale stipulato dai successori (LENER, 1989). Perché si abbia collegamento negoziale funzionale fra testamento e compromesso in arbitri devono sussistere due requisiti:
1) Il requisito oggettivo, concernente nel nesso teleologico tra i due negozi,
2) Il requisito soggettivo, che si rinviene nella volontà di tutte le parti di volere detto collegamento.

Accogliendo la tesi dell’inquadramento della clausola arbitrale nella categoria del collegamento negoziale, la clausola arbitrale stipulata dagli eredi risulterebbe funzionalmente e teleologicamente collegata al negozio testamentario, anch’esso con propria autonoma causa.
Causa unilaterale testamentaria e causa bilaterale compromissoria sarebbero collegate, superando così il problema dell’isolamento della causa.
Il tutto deve comunque essere inquadrato secondo la prospettiva già delineata dalla Suprema Corte, secondo la quale nella clausola arbitrale oggetto è il compromesso, nella clausola compromissoria oggetto è ll contratto a cui cisi riferisce (Cass. Civ. n. 1496/2001).
Per aggirare l’ostacolo del recepimento del compromesso in arbitri, contratto bilaterale il quale si fonda su un atto unilaterale, si potrebbe stipulare un contratto di natura atipica a contenuto compromissorio in testamento, il quale preveda non l’obbligo, bensì il mero invito a contrarre.
La clausola arbitrale testamentaria è qualificata dalla dottrina come un legato atipico, e più in particolare come un legato di contratto ( PARDINI, 1998). Tale istituto è poco noto e scarsamente applicato, e proprio il suo riferirsi alla clausola arbitrale potrebbe costituire una sorta di reviviscenza dello stesso.
Il legato di contratto si risolve nell’attribuzione reciproca del diritto potestativo di chiedere la stipulazione del compromesso in arbitri nel caso in cui insorga una lite fra loro in dipendenza dall’eredità.

Come testimoniano i frequenti casi in letteratura e in dottrina, il ricorso alla clausola arbitrale testamentaria risponde ad una sentita esigenza di famiglie e imprese, spesso alle prese con un patrimonio anche ingente, ovvero con la coesistenza di più nuclei familiari, ovvero ancora di più figli tra loro litigiosi.
Sovente alla guardia di tali patrimoni vi sono segretari e dipendenti in posizioni apicali di responsabilità, per i quali la mera nomina ad esecutore testamentario sarebbe oltremodo riduttiva.

Un altro modo di riconoscere validità alla clausola arbitrale testamentaria consiste nel considerarla quale condizione sospensiva (FESTI, 2002), la quale, pur non incidendo sulla validità dell’intero testamento, individuerebbe la volontà del testatore di devolvere le future controversie fra eredi in arbitri.
Intesa quale condizione risolutiva, invece, essa sarebbe da considerarsi assolutamente illecita, in quanto lesiva del diritto di difesa ex art 24 comma 1 cost. e 102 cost. Tale condizione si deve considerare come non apposta .

Secondo altra autorevole dottrina (BONILINI, 1999, GIORGIANNI, 1957) la clausola arbitrale testamentaria rientrerebbe sì nei cosiddetti elementi accidentali del negozio giuridico, ma si configurerebbe più precisamente come modus, cioè come una disposizione testamentaria autonoma accanto alla istituzione di erede o di legatario.

In ogni caso, il de cuius, mediante la clausola arbitrale testamentaria, regola in compromesso le cause che possono insorgere fra gli eredi.
Da notare, a favore di una certa riluttanza a far rientrare tale istituto nel nostro Ordinamento, come il testamento sia atto assai complesso, che manifesta indubbiamente la libera e non coartata volontà del testatore, ma anche le volontà degli eredi, che potrebbero scontrarsi con quest’ultima.
Regolando le future, eventuali controversie in arbitri, la volontà unilaterale del testatore si trasforma in un contratto fra gli eredi e i legatari
Del resto, ciò sembra inevitabile, così come è inevitabile la lenta erosione del divieto di patti successori, che aveva una sua ragione di esistere nella tradizione romanistica, tutta incentrata sulla libera volontà del pater familiae, e la dinamicità e speditezza degli schemi contrattuali moderni.

Nel prevenire e risolvere la litigiosità fra eredi, specie in situazioni complesse come quelle testé ricordate, il ricorso in arbitrato appare la soluzione ottimale.

Dal punto di vista squisitamente processuale, l’ammissibilità del compromesso in arbitri è pacificamente accettata.
Se il favor del testamento nel nostro Ordinamento è legato alla sua assoluta e definitiva revocabilità, la clausola atipica testamentaria rileva sul piano processuale, in cui esplica i suoi effetti, e come tale è lecita.
Sebbene essa possa sembrare una forte limitazione all’autonomia privata, che si esplica nella possibilità di fare ricorso al Giudice naturale precostituito per legge, il contratto con il quale i singoli deroghino alla giurisdizione ordinaria in materia di eredità risiede nella volontà del de cuius, diritto di cui è ancora titolare fino al momento della sua morte.
L’esigenza di guardare ai patti successori con una maggiore elasticità, aggirandone il divieto, può essere meglio compresa con riferimento al complessivo fenomeno della crisi della successione mortis causa come mezzo per regolare futuri assetti patrimoniali.
Da più parti si auspica l’infusione di nuova linfa al diritto successorio tramite un ampliamento dell’autonomia negoziale degli eredi e legatari, pur nel rispetto della volontà sovrana del testatore, attraverso il recepimento della clausola arbitrale testamentaria, istituto in cui la volontà unilaterale del de cuius è teleologicamente e funzionalmente collegata al compromesso in arbitri fra eredi.
Purtroppo, spesso con superficialità si assiste al passaggio generazionale tramite la scelta di strumenti giuridici del tutto inadeguati. La cronaca italiana (e non solo) ha registrato vicende di grandi famiglie e imperi industriali che hanno corso seri rischi di smembramento patrimoniale e di crisi imprenditoriale al momento del passaggio generazionale.

Le crisi famigliari al momento del passaggio del testimone ai figli sono sempre in agguato, e con esse malumori, dissapori, delusioni, e talvolta anche strascichi giudiziari.

L’atteggiamento del testatore è comprensibile: come preoccuparsi dei propri averi e dell’assetto complessivo del patrimonio familiare per un tempo che si crede ancora lontano, e dovendo anteporre considerazioni giuridiche agli affetti più cari, che in qualche modo sfuggono ad un metro economico?
Se il testamento e la donazione sono atti giuridici, che debbono, in quanto tali, rispettare i caratteri e le forme per essi previste, è pur vero che gli atti di ultima volontà riguardano, per così dire “ a monte”, scelte personalissime.

Per questo è necessario rivolgersi alla psicologia giuridica, per accompagnare il privato nelle proprie decisioni dispositive.
Lo psicologo forense si trova difronte a scelte proprie di notai, commercialisti, avvocati, per le quali non ha titolo per intervenire.
Tuttavia, un servizio integrato psico – sociale può essere utilissimo supporto alle decisioni di ultima volontà.
Lo psicologo forense deve coordinarsi in network con i professionisti del diritto, creando spunti di riflessione che aiutino il de cuius nelle sue ( spesso sofferte) decisioni, in modo che gli averi non vengano anteposti alle persone, e la pianificazione successoria diventi vero e proprio bilancio di una vita.
La consulenza psicologico – forense in ambito successorio è finalizzata a trovare soluzioni mantenendosi l’esperto in una posizione di assoluta terzietà, in modo che il testatore trovi una figura con cui confrontarsi che lo aiuti a compiere delle scelte. In tal modo, il testatore si troverà difronte al notaio in una situazione di maggiore consapevolezza, poiché troverà risposte ai propri interrogativi prendendosi tutti il tempo necessario, e non lasciando scelte fondamentali per la propria famiglia unicamente al momento dell’esecuzione dell’atto.
Ovviamente il supporto psicologico sarà di fondamentale importanza allorquando, sempre in tema di successione testamentaria, si dovrà valutare la capacità del de cuius. Ciò richiede sovente un approccio multidisciplinare che affianca alle competenze degli esperti di diritto psicologi, psicobiologi, neurologi, neuropsicologi e grafopatologi, per offrire al Giudice un supporto che, per la sua complessità e valutazione retrospettiva, rappresenta un notevole “banco di prova” per il perito.

Un altro problema che insorge allorquando un notaio, ovvero un Giudice in sede di impugnazione, si trova a valutare un testamento è la individuazione dei criteri ermeneutici che conducono alla sua interpretazione, a partire da quella che ricerca la reale volontà e gli intendimenti del testatore, cd. “interpretazione soggettiva” ex. art. 1362 – 1365.

E’ altresì vero che l’interpretazione del testamento, a differenza di quella del contratto ovvero del negozio giuridico in generale, per la sua natura di atto personalissimo e sempre revocabile, impone una più penetrante ricerca della volontà del testatore.
Secondo giurisprudenza: “L’interpretazione del testamento è caratterizzata, rispetto a quella contrattuale, da una più penetrante ricerca della volontà del testatore, la quale, alla stregua dell’art. 1362 c.c., va individuata sulla base dell’esame globale della scheda testamentaria, con riferimento anche ad elementi estrinseci alla scheda stessa, come la cultura, la mentalità e l’ambiente di vita del testatore medesimo. Pertanto il giudice di merito può attribuire alle parole usate dal testatore un significato diverso da quello tecnico e letterale, quando si manifesti evidente, nella valutazione complessiva dell’atto, che esse siano state adoperate in senso diverso, purché non contrastante e antitetico, e si prestino ad esprimere in modo più adeguato e coerente la reale intenzione del de cuius.” (Cass. 7025/86).
Al di là dell’ermeneutica, l’elemento psicologico è di fondamentale importanza nell’interpretazione del testamento. E’ dunque pienamente lecito il ricorso ad elementi extra – testuali: anche una volontà all’apparenza univoca può contraddire l’effettiva intenzione del de cuius quale desumibile da dati non testuali. L’importante è che il ricorso a figure quale lo psicologo forense non spinga il Giudice sulla strada dell’integrazione del testamento, attraverso la ricostruzione di quella che avrebbe potuto essere la volontà de de cuius, e non di quella che in effetti è.
Nella ricerca della volontà testamentaria l’interprete dovrà dunque immedesimarsi nel testatore e attribuire alle parole contenute nella scheda il significato con il quale il de cuius le ha adoperate (PEREGO, 1970).
Per quanto riguarda l’interpretazione oggettiva ovvero integrativa, essa gioca un ruolo solamente sussidiario quando non residuale. La sua applicabilità in maniera estensiva al testamento è dubbia.
In effetti, in caso di mancanza di una chiara volontà testamentaria è sempre possibile applicare in via sussidiaria le norme sulla successione legittima, per le quali sussiste il favor del legislatore. La forte considerazione, sul piano socio – economico, riconosciuta dal legislatore al negozio testamentario è ribadito dall’art. 590 del Codice, secondo il quale: “La nullità della disposizione testamentaria, da qualunque causa dipenda, non può essere fatta valere da chi, conoscendo la causa della nullità ha, dopo la morte del testatore, confermato la disposizione o dato ad essa volontaria esecuzione”.

Difronte ad una crisi del testamento come unico atto mortis causa, ritenuto da più parti non sufficientemente adeguato ad ovviare alle carenze normative in una materia quale quella delle successione così importante per gestire il passaggio generazionale del patrimonio familiare, si situa comunque la volontà del nostro Legislatore di assicurare sempre il pieno rispetto della libera volontà del de cuius.
Svincolare l’ermeneutica dall’indagine circa la volontà dell’ autore del negozio significa travalicare le intenzioni di chi ha impostato la successione codicistica incentrandola sul testamento quale supremo atto di volontà privata.

In conclusione, la successione mortis causa testamentaria può a tutt’oggi potersi considerare un vero e proprio crocevia del diritto.

Da un lato, il testamento è negozio personalissimo, espressione di una volontà univoca che deve sempre essere riaffermata in qualsivoglia circostanza, dall’altro, si auspica da più parti lo svincolo dal divieto dei patti successori ( istitutivi) a favore di una maggiore flessibilità dell’istituto.
Il tutto nella consapevolezza che prendersi cura dell’esistente per il tempo in cui si cesserà di esistere è il supremo atto di autonomia, indipendenza, amore.
Roberto Campagnolo

BIBLIOGRAFIA