La confessione quale atto mortis causa

Come una dichiarazione del defunto, contenuta in un testamento, può risolvere le controversie tra eredi

Commento a Cassazione 8 giugno 2022, n. 18550

“All’erede è opponibile il valore confessorio della dichiarazione contenuta nel testamento”.

Di Roberto Campagnolo,
avvocato, patrocinante in Cassazione

I legittimari sono incorsi in una contesa con l’erede, anch’egli legittimario, per fare valere una donazione dissimulata dietro una compravendita a favore di quest’ultimo.

Sussisteva, infatti, una dichiarazione del testatore che conteneva l’affermazione di aver inteso donare il bene.
Ne è sorta una controversia giudiziale, approdata in Cassazione.

In primo luogo, parte ricorrente rilevava come la simulazione fosse intervenuta unicamente tra il de cuius e l’erede, e dunque, essendo i legittimari pretermessi soggetti terzi, la simulazione potesse essere provata con qualsiasi mezzo.

La confessione secondo il codice civile è una dichiarazione fatta da una parte di fatti ad essa sfavorevoli e favorevoli all’altra parte.
Inoltre, l’art. 2735 comma 1 seconda parte c.c. stabilisce espressamente che la confessione giudiziale possa essere contenuta anche in un testamento, e debba essere valutata liberamente dal giudice.

Sussistono dei precedenti, ad esempio in tema di donazioni indirette (Cass, sez. 2, n. 12683, del 19.05.2017).

La peculiarità di questa dichiarazione confessoria, tuttavia, è che si tratta di una dichiarazione del testatore che non produce effetti a carico di quest’ultimo, bensì effetti sfavorevoli a carico dell’erede, e favorevoli a carico dei legittimari pretermessi (Cass., sez. 2 , 26/11/97, n. 11851).

E’ dunque insorto un contrasto giurisprudenziale con riferimento alla posizione di soggetto terzo del testatore rispetto ai legittimari pretermessi (Cass., sez. 2, n. 11757/2013).

Certamente, le donazioni costituiscono un anticipo di eredità, e non possono essere fatte in lesione dei legittimari, pena azione di riduzione.
Qualora esse siano dissimulate dietro altri negozi giuridici, ad esempio una compravendita, e tale fatto si accerti in sede di apertura della successione e di lettura del testamento, sorge la questione di una confessione stragiudiziale fatta in vita dal de cuius la quale non produce effetti sfavorevoli nei confronti di quest’ultimo, bensì nei confronti di un soggetto terzo (l’erede).
Per questo, nella sistematica del Codice Civile, tale confessione viene apprezzata liberamente dal Giudice (e non costituisce piena prova, come in genere accade per la confessione stragiudiziale).

Secondo una parte della dottrina, infine, tale confessione costituirebbe un atto e non un negozio giuridico, in quanto i suoi effetti si produrrebbero nei confronti di un soggetto terzo, e dopo la morte del testatore.

Sul piano dottrinale (e giurisprudenziale, cfr. Cass. 10.08. 2006 n. 18131) sembra perciò riaprirsi l’annosa questione della natura negoziale ovvero di mero atto giuridico del testamento; accogliendo quest’ultima ipotesi, peraltro minoritaria, il testamento sarebbe equiparabile ad una parziale confessione, in quanto in grado di produrre effetti favorevoli e (non solo) sfavorevoli su eredi e legatari, e non sul testatore stesso.

Tale questione è appena stata esaminata dalla Suprema Corte, e merita ulteriori approfondimenti.

In quanto atto, il valore confessorio di una dichiarazione la quale dissimuli una donazione dietro ad una compravendita è comunque opponibile all’erede, il quale è dunque obbligato a conferire nuovamente alla massa ereditaria il bene donato di cui è stata simulata una compravendita, affinchè gli altri legittimari possano esperire l’azione di riduzione.

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