Accettazione dell’eredità, poteri del delato

L’art. 460 c.c. così dispone:

  1. Il chiamato all’eredita può esercitare le azioni possessorie a tutela dei beni ereditari, senza bisogno di materiale apprensione.
  2. Egli inoltre può compiere atti conservativi, di vigilanza e di amministrazione temporanea, e può farsi autorizzare dall’autorità giudiziaria a vendere i beni che non si possono conservare o la cui conservazione importa grave dispendio.
  3. Non può il chiamato compiere gli atti indicati nei commi precedenti, quando si e provveduto alla nomina di un curatore dell’eredita a norma dell’art. 528 c.c. ».

La disposizione in oggetto necessita di talune precisazioni.

Il termine chiamato, in realtà, fa riferimento al delato, ossia a colui che è realmente in grado di accettare l’eredità.

Nel periodo intercorrente tra l’apertura della successione e l’accettazione dell’eredità, qualora non sia stato nominato un curatore ai sensi dell’art. 528 c.c., si verifica una situazione non di giacenza dell’eredità, bensì di mera «vacanza» della stessa, in quanto il patrimonio ereditario è privo di un dominus.

Durante questo lasso di tempo i beni ereditari sono esposti al rischio che terzi ne acquistino il possesso. Pertanto, al fine di evitarne la dispersione, l’art. 460 c.c. attribuisce al «chiamato» il potere di gestire il patrimonio ereditario; potere il cui esercizio non compromette la facoltà di rinunciare successivamente all’eredità.

La gestione conservativa dei beni ereditari, peraltro, non comporta accettazione e, dunque, l’acquisto della qualità di erede. A tale riguardo il legislatore ha distinto gli atti di amministrazione dell’eredità da quelli che comportano accettazione tacita. L’attribuzione dei poteri di amministrazione di cui all’art. 460 c.c. ha fatto sorgere la questione dell’esatta individuazione della natura giuridica del chiamato, ossia ci si è chiesti se questi debba o possa amministrare i beni ereditari.

Al quesito si è risposto ora con la teoria dell’ufficio privato, fondata sulla circostanza che il delato, il quale dovrebbe essere qualificato come un curatore di diritto dell’eredità, amministra beni non ancora suoi; ora con la teoria dell’amministrazione nell’interesse proprio, basata sul fatto che l’art. 460 c.c. non impone alcun obbligo al delato riguardo all’amministrazione, a differenza di quanto previsto nei casi di vero ufficio di diritto privato; ora, infine, con la teoria dell’aspettativa di diritto all’acqui­sto dell’eredità, atteso che la posizione del chiamato a oggetto di una tutela provvi­soria in via di urgenza a carattere cautelativo.

In definitiva, queste due ultime ricostruzioni ritengono che il chiamato sia titolare di una mera facoltà di amministrare i beni ereditari, la quale troverebbe fondamento ora nella tutela dell’aspettativa all’acquisto dell’eredità, ora nella protezione del futuro erede. Qualora si qualifichi il chiamato alla stregua di un curatore di diritto dell’eredità, se ne dovrebbe affermare la responsabilità nei confronti del futuro erede, dei creditori del de cuius e dei legatari in caso di dispersione del patrimonio ereditario per inosservanza dell’obbligo di amministrare i beni ereditari. Diversamente, detta re­sponsabilità sorgerebbe in capo al chiamato solo qualora questi dapprima si ingerisse nella cura del patrimonio provocandone, in parte o in tutto, la dispersione, e suc­cessivamente rinunciasse all’eredità.

L’omessa gestione acquisterebbe rilevanza soltanto al fine di consentire la nomina di un curatore giudiziale ai sensi dell’art. 528 c.c.

Ma allora, la posizione del chiamato sarebbe equiparata a quella del gestore di affari altrui, con la conseguenza di ritenerlo legittimato a compiere anche atti di straordi­naria amministrazione in via d’urgenza.

Inoltre, dovrebbero essergli liquidate dall’eredità le spese sostenute (con denaro proprio) per il compimento degli atti previsti dall’art. 460 c.c., qualora sopravvenga una rinuncia. Infatti, attesa la retroattività della rinuncia, il soggetto designato a succedere sarebbe considerato come se non fosse mai stato chiamato e, conseguentemente, l’eventuale gestione, risultando ex post compiuta nell’interesse altrui, avrebbe comunque fornito, al rinunciante, titolo per ottenere, ai sensi dell’art. 2031 c.c., la restituzione delle eventuali spese sostenute.

La giurisprudenza prevalente ha sostenuto che le attività di cui all’art. 460 c.c. integrano poteri, non obblighi: gli atti di mera conservazione, vigilanza ed ammini­strazione dell’eredità, che il chiamato può compiere in virtù dell’art. 460 c.c., non comportano accettazione tacita.

La denuncia di successione ed il pagamento della relativa imposta in relazione al valore del patrimonio dichiarato nella predetta denuncia sono atti di natura preva­lentemente fiscale e, poiché essi sono intesi ad evitare l’applicazione di sanzioni, hanno solo uno scopo cautelare per cui rientrano tra gli atti che il chiamato può compiere ai sensi del predetto art. 460 c.c.

Invece il ricorso alle commissioni tribu­tarie contro l’avviso di accertamento del maggior valore notificato all’amministrazio­ne finanziaria e la successiva promozione di un concordato per la definizione della relativa controversia, costituiscono accettazione di eredità perché tali atti non espri­mono solo l’intenzione di conservare e gestire l’eredità ma anche l’intenzione di accettare la stessa perché intendono risolvere in modo definitivo la questione fiscale.

1. — Con i primi due motivi, strettamente connessi, si denunzia la violazione degli artt. 460, 476, 1399, 2028 e 2032 del codice civile, in relazione all’art. 360 nn. 3 e 5 del codice di procedura civile e si censura la sentenza impugnata per avere la Corte d’Appello erroneamente negato che gli atti, di natura prevalentemente fiscale, compiuti dai chiamati (denunzia di successione, ricorso alla Commissione tributaria, concordato e pagamento dell’imposta) rientrino tra quelli conservativi, indicati nel­l’art. 460 cod. civ., e ritenuto, invece, che integrino l’ipotesi della accettazione tacita dell’eredità, mentre, per poterne ravvisare l’esistenza, avrebbe dovuto procedere alla valutazione complessiva del comportamento dei chiamati a precisare, il che non ha fatto, gli elementi dai quali si desumeva, in modo chiaro e univoco, la volontà di tale accettazione.

In particolare, la Corte ha operato una distinzione inaccettabile, perchè meramente quantitativa, avendo escluso che la presentazione della denunzia di successione e il pagamento dell’imposta relativa denotino la volontà d’accettare, e che, invece, questa debba ritenersi provata se ad essi si aggiungano la proposizione del ricorso alla Commissione tributaria e la istanza di concordato, che sono, per di più, due atti intermedi, rispetto a quello finale, costituito, dal pagamento del debito tributario, giudicato insufficiente per la prova dell’accettazione.

Inoltre, la Corte è incorsa in errore anche perché, avendo ritenuto che l’eredità era stata accettata da tutti i chiamati e non soltanto da quello che, senza essere investito del potere di rappresentanza, aveva compiuto i summenzionati atti (PT), considerati, concludenti, ha desunto, dalla gestione operata da quest’ultimo, l’accettazione degli altri, senza considerare che la negotiorum gestio è istituto inapplicabile in tema di accettazione ereditaria, e richiede, comunque, la ratifica degli interessati nella specie non intervenuta.

Le censure sono entrambe infondate.

A. — Ai fini dell’accettazione tacita dell’eredità, il chiamato deve compiere un atto che presupponga necessariamente la sua volontà di accettare e che non avrebbe il diritto di fare se non nella qualità di erede (art. 476 cod. civ.).

Restano, quindi, esclusi dagli atti che comportano l’accettazione tacita dell’eredità, quelli di mera conservazione, vigilanza e amministrazione, che il chiamato a succe­dere può compiere, per questa sua specifica qualità, in base ai poteri conferitigli dall’art. 460 cod. civ.

In particolare, la giurisprudenza più remota ritenne che la denunzia di successione implicasse la volontà di accettare l’eredità, in base allo svolgimento che per gli art 51 e 55 del RD. 30 dicembre 1923 n. 3270 (Legge tributaria sulle successioni, appli­cabile alla fattispecie concreta) essa doveva essere firmata dagli eredi, ovvero da un loro rappresentante, munito di mandato speciale. Tuttavia, si replica, esattamente, che la parola erede era stata usata non in senso proprio, ma come sinonimo di chiamato alla eredità, e che per la denunzia di successione non era richiesta necessariamente la qualità di erede, in quarto, ai sensi dell’art. 55 cit., erano obbligati alla sua presenta­zione anche gli amministratori dell’eredità e gli esecutori testamentari.

La giurispru­denza più recente di questa Corte è costante nel negare che la denunzia di successione riveli in modo univoco la accettazione dell’eredità, soprattutto perché il chiamato, al quale e concesso un lungo termine per manifestare tale volontà (l’art. 480 cod. civ. prevede che il diritto d’accettare si prescrive in dieci anni, salva la facoltà degli altri interessati d’esercitare l’interpello a norma dell’art. 481 cod. civ.), potrebbe aver fatto tale denunzia all’unico scopo di sottrarsi alle penalità comminate per la sua tardiva presentazione (sent. nn. 11813 del 1992, 5688 e 2403 del 1988, 892 del 1987, 5275 del 1986, 6103 del 1978, 3597 del 1977, 1498 del 1974 c 37 del 1964). E di questo orientamento deve essere condivisa anche l’ulteriore consequenziale affermazione, secondo cui l’accettazione tacita dell’eredità non può desumersi neanche dal paga­mento dell’imposta di successione, eseguito dal chiamato, con riferimento al valore del patrimonio relitto, dichiarato nella denunzia di successione.

La conclusione deve, invece, essere diversa qualora, come e avvenuto nel caso in esame, il chiamato, oltre a presentare la denunzia di successione e a pagare l’imposta dovuta sul valore dichiarato dell’eredità, abbia posto ricorso alla Commissione tributaria contro l’accertamento di maggiore valore, notificatogli dall’Amministrazione Finanziaria e abbia poi con questa definito la controversia con un concordato.

Per l’accettazione tacita dell’eredità non è richiesta una volontà diretta intenzionalmente al suo acquisto, essendo sufficiente che il comportamento voluto e posto in essere dal chiamato, presupponga necessariamente, per la sua obbiettività, la volontà di accettare.

Il ricorso alla Commissione tributaria e il concordato con l’Ufficio finanziario sono atti che, per i loro requisiti intrinseci, rivelano di per se stessi la volontà d’accettare.


LEGISLAZIONE c.c. 460, 476, 485-486, 528, 1140 – c.p.c. 747

BIBLIOGRAFIA Natoli 1968 – Bonilini 2006 – Gazzoni 2006 – Torrente e Schlesinger 2007 – Di Marzio 2008c – Campagnolo 2009 – Di Lorenzo 2009

L’Avvocato Roberto Campagnolo vanta una specifica conoscenza della materia ereditaria, suffragata da numerose pubblicazioni sull’argomento, tra cui la pubblicazione monografica “Successioni mortis causa” (UTET, 2011), dalla quale è tratto questo testo.